Salute o Economia?

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Salute o Economia?

Per un nuovo ordine economico

di Marinella De Simone

(Questa pandemia) coinvolge ormai tutto il mondo, nessuno escluso, e avrà profonde conseguenze non solo dal punto di vista sanitario ma anche da quello economico. La tempesta del virus a un certo punto passerà, ma le scelte che facciamo in questi giorni per affrontarla potranno cambiare le nostre vite per molto tempo.

(Yuval Noah Harari, Chiudersi è sbagliato, serve una solidarietà globale)

Il modello di sviluppo economico

Con l’allentamento delle limitazioni causate dal lockdown, è apparsa ancora più evidente la dicotomia – presente già da tempo anche nei Paesi più avanzati – tra l’obiettivo di salvaguardare la salute delle persone e la necessità di garantire il funzionamento del sistema economico attuale. Quest’ultimo, pare superfluo ricordarlo, è fondato in estrema sintesi sul mantenimento di un alto livello dei consumi, tale da assicurare margini di profitto alle aziende, le quali a loro volta garantiscono alle persone lavoro e reddito da spendere in consumi. È un meccanismo semplice, che funziona finché nessuno dei vari passaggi si inceppa. Le persone lavorano per poter consumare, le aziende producono per poter soddisfare i consumi, lo Stato regola, con interventi a margine, il funzionamento di questo processo. Semplicisticamente, questo modello è definito di “benessere”: più alto il livello dei consumi, maggiore il benessere provato; più alto il livello di produzione, maggiore il benessere del paese.

Con l’epidemia da COVID-19 abbiamo vissuto, per la prima volta ai diversi livelli sociali e nelle varie parti del mondo, l’esperienza di un’interruzione totale di questo meccanismo circolare. Chiusura delle fabbriche e degli uffici, dei cinema e dei teatri, dei ristoranti e dei bar, delle scuole e delle università, limitazione dei trasporti, sospensione delle attività sportive e ricreative: uno ‘stop’ improvviso che ha fermato bruscamente tutto il sistema che regge la nostra economia, localmente e globalmente. Fermati i consumi, fermato il lavoro, fermata la produzione. Il blocco causato dall’epidemia ha determinato a cascata una riduzione drastica dei consumi e, pertanto, una contrazione dell’economia, con il rischio di una crisi economica e sociale ben più pesante di quella registrata a partire dal 2008, e che, secondo alcuni economisti, potrebbe rivelarsi peggiore di quella del 1929.

Non è stato più un solo Paese, o una singola area geopolitica, ad entrare in crisi, ma l’intero pianeta.

Il tutto è avvenuto per ondate successive, sfasate solo di qualche settimana, creando tuttavia l’illusione – in chi ancora non era stato investito dall’ epidemia – di potersi salvare e di poter continuare con la vita di sempre, purché il problema fosse fuori dal proprio territorio di riferimento. Adesso che per alcune aree l’epidemia sembra superata e si attende di tornare alla vita di sempre, potrebbero invece ripetersi ondate di ritorno da quei Paesi che sono ancora nel massimo del processo di contagio.

Queste ondate hanno fatto il giro del mondo – e presumibilmente continueranno a farlo: occorre pertanto porsi delle domande che, fino a oggi, non abbiamo avuto il coraggio di farci e che abbiamo continuato a rinviare, aspettando che tutto si sistemasse da sé.

Gli interventi economici discussi nei vari Paesi in questi mesi si sono incentrati quasi esclusivamente sul sostegno dei consumi; qualcuno – come l’economista Nouriel Roubini della New York University1 – ha prospettato persino l’applicazione dell’approccio chiamato “helicopter money” (denaro dagli elicotteri), ovvero distribuire a tutti – indipendentemente dal proprio reddito o patrimonio – una stessa somma di denaro, per esempio, mille dollari a testa – in modo da incrementare i consumi e sostenere così l’economia, con un costo stimato, ad esempio, per gli Stati Uniti, di trecentocinquanta miliardi e, per l’Italia, di sessanta miliardi.

Ma di quale economia stiamo parlando? Possibile che esista solo questo modello economico? A giudicare dalle reazioni dei diversi Paesi e dei modi in cui intendono affrontare l’impatto del contagio da Coronavirus sull’economia, sembrerebbe di sì.

L’economia del criceto

Qualcuno ha definito questo modello economico “economia del criceto”2: lavorare di più per consumare sempre di più. Siamo come i criceti che corrono nella ruota della propria gabbietta. Dobbiamo continuare a correre per far girare la ruota, pur non capendone lo scopo. È un’attività fine a sé stessa, sappiamo solo che non ci si può fermare, pena il crollo di tutto il sistema economico globale.

Una delle domande che potremmo iniziare a porci potrebbe essere: “Perché continuare a far girare la ruota?”

Se il COVID-19 ha qualcosa da insegnarci, è che il modello economico che stiamo inseguendo così faticosamente è sbagliato nei suoi presupposti di fondo. Vediamone solo alcuni.

I consumi possono e devono crescere illimitatamente. Si dimentica così che le risorse che utilizziamo per produrre i beni e i servizi che consumiamo sono limitate – se non addirittura scarse – e che vengono estratte da un pianeta che, nonostante sia la base stessa della nostra vita, stiamo distruggendo sistematicamente e in modo irreversibile. L’ipotesi di fondo è che anche le risorse siano in qualche modo illimitate, basta cercarle e sfruttarle adeguatamente. Ipotesi decisamente errata: è valida solo nel breve periodo ed è utile ad aumentare i profitti temporanei di alcune grandi aziende, a discapito di tutto l’ecosistema che regge la nostra vita insieme a quella di altri esseri viventi non solo oggi ma anche e soprattutto nel futuro prossimo.

I rifiuti prodotti da ciò che consumiamo possono tranquillamente non rientrare nel circuito economico e produttivo, ma essere scartati senza problemi, occultandoli da qualche parte e dimenticandoci della loro esistenza. Purtroppo per noi, ciò che nascondiamo ai nostri occhi rimane comunque in circolo senza che possa essere eliminato, ritrovandocelo nel cibo, nell’aria, nell’acqua, nella terra, con gli effetti disastrosi di cui ci stiamo rendendo conto solo ora.

I profitti che si generano nelle aziende attraverso il soddisfacimento della domanda di beni e servizi creano a loro volta posti di lavoro, e quindi il reddito necessario per poter ulteriormente consumare. La realtà sociale ed economica che stiamo vivendo già da alcuni decenni ci mostra che non è scontato che i profitti vengano utilizzati per mantenere o addirittura aumentare i posti di lavoro, ma che – sempre più spesso – le persone impiegate vengono sostituite con processi tecnologici che riducono il personale e, quindi, il corrispondente costo del lavoro. In alternativa, le imprese esternalizzano già da anni i costi del lavoro, affidandosi a mercati in cui il livello dei salari è molto inferiore a quello locale con conseguente delocalizzazione della produzione, spingendo globalmente i salari sempre più in basso e riducendo così la capacità di spesa delle persone. Le imprese basano le loro scelte su un vantaggio competitivo che si possa tradurre in vantaggio economico: aumento dei ricavi e riduzione dei costi, in qualunque modo questo possa realizzarsi.

Il benessere è quantitativo ed è fondato sul consumo: più consumiamo più siamo felici. Nonostante già da diversi anni vi siano indici economici che misurano il benessere includendo aspetti che non sono di mera produzione/consumo, i riferimenti per le scelte economiche di un Paese rimangono gli indici di crescita economica fondati sul prodotto interno lordo, il PIL. Ancora ragioniamo in termini di crescita economica come crescita di benessere sia sociale che individuale, sebbene vi siano innumerevoli studi che dimostrano da anni che questa semplice equazione non corrisponde alla realtà. Le persone dei Paesi “ricchi” non sono più felici. Uno dei parametri di maggior rilievo per misurare il benessere – o il malessere di un Paese – è la disuguaglianza – economica, sociale, di salute, di istruzione – sia reale che percepita, che sta aumentando sempre più, anche nei Paesi cosiddetti ricchi.

La dicotomia tra economia e salute

La dicotomia tra economia e salute discende dal modello economico seguito: se ci fermiamo per paura di ammalarci, si ferma anche tutta l’economia globale e crolla il sistema su cui è fondata. Questa dicotomia è pertanto molto pericolosa: si rischia che, in caso di ulteriori ondate di contagio, non si decida più per la sospensione delle attività, ma per quella che viene chiamata brutalmente “l’immunità di gregge”, confrontandoci così con delle pecore che, per potersi cibare, vanno dove decide il loro pastore. Pur di salvaguardare lavoro, consumi, aziende, si considerano le morti e i malati un “costo necessario” per la società nel suo insieme e per la sua stessa sopravvivenza. Come nelle guerre, quando si parla di “danni collaterali” se nei bombardamenti vengono uccisi dei civili: un rischio calcolato.

La risposta alla domanda “perché continuare a far girare la ruota?” diventa pertanto scontata: perché non c’è altra scelta, perché questo è il migliore dei mondi possibili, fondato sul benessere di ciascuno che diventa bene di tutti. Ognuno deve fare la sua parte, e non importa se una percentuale di noi si ammalerà, o morirà, o avrà effetti a lungo termine sulla propria salute causati dall’essersi contagiata per poter continuare a lavorare. Speriamo solo che non tocchi a noi, o ai nostri cari.

Come afferma Slavoj Žižek3, abbiamo urgente bisogno di un nuovo ordine economico, “che ci permetta di evitare la sfiancante scelta tra rilanciare l’economia e salvare delle vite”.

Il COVID-19 ci sta dando l’opportunità di riflettere sulle scelte che facciamo, sia individualmente che collettivamente, e di valutare e decidere possibili modelli alternativi. Può sembrare un’utopia, ma affinché possa realizzarsi sta a noi provare a farlo. E questo è il momento.

 

1 “Diamo i soldi in mano ai cittadini. Solo così si esce dalla crisi” – intervista a Nouriel Roubini di Eugenio Occorsio; in “Il mondo che sarà. Il futuro dopo il virus”, La Repubblica, GEDI – Gruppo Editoriale SpA, 2020.
2 Mauro Gallegati, Acrescita. Per una nuova economia, Einaudi, 2016.
3 “Il virus del capitalismo”, in Internazionale n. 1365, anno 27, 3/9 luglio 2020, pagg. 36-37.

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