Identità relazionale

 Siamo un flusso in costante trasformazione

di Marinella De Simone

La nostra identità in quanto individui è di una natura del tutto peculiare. Da un lato si può dire che esiste. Mi dicono: Buongiorno, Francesco, ed io sono capace di rispondere, di avere delle relazioni con gli altri. Dunque, c’è una specie di interfaccia, di collegamento con il mondo, che dà l’impressione di un certo livello di identità e di esistenza. Ma al tempo stesso questo processo è di natura tale che, appunto, come in tutti i processi emergenti, io non posso localizzare questa identità, non posso dire che si trovi qui piuttosto che là, la sua esistenza non ha un locus, non ha una collocazione spazio-temporale. È difficile capire che si tratta di una identità puramente relazionale.

(Francisco Varela)

L’identificazione con il proprio ‘io’

L’identificazione della persona con il proprio ‘io’ non è un’illusione facile da eliminare. Si può provare all’infinito, con esempi pratici o con ragionamenti logici, a dimostrare ad una persona che il suo ‘io’ non esiste da nessuna parte, ma che si tratta solo di un processo in continuo divenire. Che il suo ‘io’ non è il corpo, e nemmeno una parte di esso; che non è la mente, e nemmeno una parte di essa; che non è la sua autobiografia, e nemmeno una parte di essa.

Il nostro corpo è in continuo divenire: nulla c’è nel nostro corpo di immutato e permanente nel tempo. Da quando veniamo concepiti, la materia che ci compone è in continua trasformazione, e ciò che si perpetua nel tempo è lo schema di interconnessioni che lega i singoli elementi provvisori e che non riusciamo a vedere. Così la nostra mente: è un continuo flusso di pensieri e di sensazioni, che già si perdono nel momento passato e che ancora non sono sorti nel momento successivo.

Nonostante ciò, la finzione a cui siamo più attaccati è proprio questa: che esistiamo in quanto centro di pensieri, di emozioni, di ricordi all’interno di un corpo definito e riconoscibile tra miliardi di altri. È vero, eppure non lo è.

È come se la nostra stessa esistenza fosse solo un continuo gioco di equilibrio su un filo teso nel vuoto tra due punti che non potremo mai raggiungere, se non con la nostra morte fisica o mentale.

Per non guardare questo vuoto, preferiamo credere all’illusione della permanenza del nostro corpo, della nostra coscienza, identificandoci con essi. Ci attacchiamo alla nostra esistenza come se fosse eterna e immutabile, e i cambiamenti che sopravvengono li leggiamo come sventure e come attacchi diretti alla nostra persona.

Se confrontiamo una persona con la propria identificazione, forse, per un solo attimo, potrà sentire una sensazione che si avvicina al senso di vuoto che la rottura di questa illusione crea; subito dopo, però, il suo bisogno di attaccamento alla realtà come esistente di per sé, e quindi anche del suo ‘io’ esistente di per sé, riprende il sopravvento.

Il contesto individualista

L’identificazione di ognuno di noi con il proprio ‘io’ non è avulsa dal contesto all’interno del quale viviamo. Tutto il sistema di credenze collettive in cui siamo immersi, il paradigma che pervade la nostra cultura, è un continuo rinforzo dell’identificazione di ognuno di noi con il proprio ‘io’.

È un paradigma centrato esclusivamente sulla persona e sul suo benessere individuale, senza alcuna considerazione per gli altri e per il contesto: ambiente naturale o ambiente sociale non fa differenza. Il contesto individualista può allargarsi fin dove si allarga il proprio ‘io’ personale: la propria famiglia, il proprio ruolo sociale, la propria azienda, in un processo di identificazione che dal proprio – piccolo – ‘io’ si allarga al proprio – grande – ‘io’.

Nell’identificazione, lo schema ricorrente è quello della ricerca di un modello ideale in cui riflettere la propria immagine, piccola o grande che sia. Nell’identificazione con ciò che si ritiene il proprio sé, è il proprio ‘io’ il centro del mondo. Tutto si confronta con il proprio sé, escludendo ed allontanando ciò che non è corrispondente.

Per affermare il proprio interesse, la persona assume una immagine di sé, o auto-immagine, che le consente di agire scegliendo un’adeguata identificazione di contesto. L’auto-immagine prevalente che la persona si genera nel corso della vita tende a divenire immodificabile e, solitamente, anche irrinunciabile.

Lo sforzo dell’individuo si concentra nel difendere l’immagine di sé con cui si identifica: che sia l’immagine materiale – bellezza, giovinezza, ricchezza – o l’immagine di un tratto della personalità – perfezione, bravura, bontà, innocenza, sapere – o magari l’immagine della propria leadership aziendale – autoritaria, permissiva, democratica – non fa differenza.

Rimane un sé contratto sul proprio ego, l’unico ad avere ragione. L’identità in questo tipo di relazione con il mondo è esclusiva: esclude tutto ciò che non riconosce come sé o che non le appartiene. La resistenza al cambiamento è naturalmente altissima: si cerca costantemente l’auto-conferma, e quindi la stabilità, del proprio mondo, ritenuto l’unico possibile. È un processo di attrazione verso un unico punto di equilibrio perfetto: il proprio sé.

Il sé individuale diviene un momento illusorio, poiché non è nel quando o nel dove che esso si può definire; non ha alcunché di concreto, né può essere trasformato in qualcosa di realmente esistente dando ad esso un nome e rendendolo oggetto. L’emergere del proprio mondo interiore risulta qualcosa di impalpabile e di non concretamente definibile: dove inizia il proprio sé rispetto a ciò che è considerato come altro? Quando è possibile parlare di una propria identità e di un proprio mondo interiore? Che cosa è la propria identità?

Si tratta di un processo, di un fenomeno, che può emergere dall’interagire di più elementi e dalla loro ripetibilità. L’iterazione, il continuo ripetersi di fenomeni simili anche se mai identici, fa apparire come costante qualcosa che in realtà non lo è, consentendo di creare un’immagine – il sé, la propria identità – come qualcosa di stabile, pur se è sempre in movimento e sempre co-determinantesi in un flusso ininterrotto.

Noi generalmente supponiamo che i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre percezioni abbiano un unico fondamento: noi interpretiamo tutte le nostre esperienze come se accadessero ad un unico sé.

È proprio questa nozione di unità che si dovrebbe abbandonare, fino alla riformulazione del concetto di un sé cognitivo reticolare, emergente dalle diverse relazioni in cui si è immersi.

L’identità relazionale

Tuttavia, sarebbe estremamente errato cadere nell’illusione contraria: se non c’è sostanzialità, se non c’è alcunché di certo, allora non c’è nulla… È una questione cruciale uscire dall’alternativa tra l’esistenza come sostanzialità e la non esistenza.

Come tutti i fenomeni emergenti che non hanno né sostanza né certezza, eppure esistono ed hanno effetti – anche dirompenti – nella nostra realtà, così è per l’identità personale: è una funzione diffusa, non localizzabile ma allo stesso tempo con una capacità di azione. È un processo, non una cosa.

L’identità personale è il frutto di un processo di co-definizione con la realtà circostante. Non esiste un sé localizzato, una forza motrice unica e riconosciuta che determini l’assetto della persona o permetta il consolidarsi di una coscienza autobiografica al di là della conoscenza. La natura dell’identità della persona è espressione di un fenomeno emergente: si tratta di un sé virtuale in assenza di un sé reale considerabile come tale.

Il concetto di identità, secondo questo approccio complesso, trova fonte e significato nel dominio della relazione, quale fenomeno emergente dall’interagire con ciò che si considera il proprio mondo e dalla ridondanza dell’esperienza che si consolida nel tempo, dando una struttura di certezza a ciò che non ha alcunché di certo, immaginando una forma sostanziale dove vi è invece il vuoto.

Il processo cognitivo e di apprendimento che anima la persona ed opera secondo le proprietà della complessità è un fenomeno di auto-organizzazione e ciò determina, tempo per tempo e spazio per spazio, un modo di essere integrato e significativo senza la necessità di un governo centrale che ne possa programmare il risultato per sé stessi e per gli altri.

Questo approccio presenta dei punti in comune con la filosofia buddhista, secondo la quale non esiste un vero “sé”, trattandosi piuttosto di qualcosa di illusorio a cui la persona si attacca, procurando a se stessa e agli altri sofferenza e disagio, nel tentativo da un lato di difenderlo da possibili attacchi esterni, e dall’altro di compiacerlo identificandosi con esso e pretendendone una sorta di immutabilità.

L’identità relazionale emerge come pattern relazionale privo di esistenza sostanziale o intrinseca; un’identità complessa e virtuale per la quale, come qualunque processo emergente, non è possibile definire una localizzazione di materia nello spazio e nel tempo, eppure si manifesta come un tutto coerente, dotato di qualità che le singole componenti non hanno.

L’emergere del proprio mondo interiore, della propria identità, è pertanto in relazione circolare con l’emergere della propria realtà, dell’altro da sé: è un processo di riallineamento continuo, in cui la propria identità non può essere definita aprioristicamente e separatamente come fosse qualcosa di definito una volta per tutte, né tantomeno come qualcosa di reificabile, quanto piuttosto come una continua trasformazione, in una co-definizione tra il sé, la propria identità, e l’identità dell’altro.

Difficile comprendere quali sono i confini del mio sé, dove termina ciò che considero essere la mia identità e quindi ciò che posso considerare mio in modo esclusivo. Quando parliamo, dove termina il mio pensiero e inizia il tuo? Quando ci abbracciamo, dove termina il mio corpo e inizia il tuo? Quando litighiamo, dove termina la mia ragione e inizia la tua?

L’etica, in questa prospettiva, non significa pertanto un generico senso di “bontà” o di “rispetto” verso l’altro, quanto piuttosto un concreto comprendere che siamo inscindibilmente parti uno dell’altro secondo una prospettiva inclusiva.

La foto di copertina è di Gerd Altmann da Pixabay

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