Complessità e buddhismo

 Identità personale ed Interdipendenza

 tra Complessità e Buddhismo

L’emergere del proprio mondo interiore risulta qualcosa di impalpabile e di non concretamente definibile: dove inizia il proprio sé rispetto a ciò che è considerato come altro? Quando è possibile parlare di una propria identità e di un proprio mondo interiore? Che cosa è la propria identità?

Il sé individuale, o l’identità in cui si riconosce l’individuo, diviene un momento illusorio, poiché non è nel quando, nel dove o nel cosa, che esso si può definire; non ha alcunché di concreto, né può essere trasformato in qualcosa di concreto dandogli un nome e rendendolo oggetto.

Si tratta, piuttosto, di un processo, di un fenomeno, che può emergere dall’interagire di più elementi e dalla loro ripetibilità, ossia dalla loro iterazione. L’iterazione, ossia il continuo ripetersi di fenomeni simili, pur se mai identici, fa apparire come costante qualcosa che in realtà non lo è, consentendo di creare un’immagine – il sé, la propria identità – come qualcosa di stabile, pur se è sempre in movimento e sempre co-determinantesi in un flusso ininterrotto:

Noi generalmente supponiamo che i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre percezioni e così via, abbiano un unico fondamento: noi interpretiamo tutte le nostre esperienze come se accadessero ad un unico sé. È proprio questa nozione di unità che si è sgretolata, fino alla riformulazione del concetto di un sé cognitivo dis-unificato, (reticolare). La nozione di virtualità è fondamentale nella ricerca sui sistemi complessi, è una questione cruciale uscire dall’alternativa tra l’esistenza come sostanzialità e la non esistenza. L’identità personale è una funzione diffusa, non localizzabile ma allo stesso tempo con una capacità di azione. Dov’è l’identità della nazione francese? Non è da nessuna parte: non è la costituzione, non è il presidente, non è l’insieme dei cittadini. È un processo emergente dalla coordinazione di realtà e forze differenti. Allo stesso modo l’esistenza virtuale del sé funziona come un’interfaccia non localizzabile. È un processo, non una cosa. (Varela, 2001)

Questo approccio presenta dei punti in comune con la filosofia buddhista, secondo la quale non esiste un vero “sé”, trattandosi piuttosto di qualcosa di illusorio a cui la persona si attacca, procurando a se stessa e agli altri sofferenza e disagio nel tentativo di difenderlo da possibili attacchi esterni e di compiacerlo identificandosi con esso e pretendendone una sorta di immutabilità.

L’emergere del proprio mondo interiore, della propria identità, è pertanto in relazione circolare con l’emergere della propria realtà, dell’altro da sé: è come un processo di riallineamento continuo, in cui la propria identità non può essere definita aprioristicamente e separatamente come fosse qualcosa di definito una volta per tutte, né tantomeno come qualcosa di reificabile, quanto piuttosto come un processo di continua trasformazione, in una co-definizione tra il sé, la propria identità, e l’identità dell’altro.

Il senso di estraniazione dalla propria realtà, in cui non si riesce più a comprendere ciò che sta accadendo attorno a sé, conduce anche ad un senso di estraniazione da se stesso: non ci si riconosce più attraverso ciò che è diverso da sé, perdendo così anche il senso di ciò che è simile a sé, la propria identità.

L’etica, in questo contesto, non significa pertanto un generico senso di “bontà” o di “rispetto” verso l’altro, quanto piuttosto un concreto comprendere che siamo inscindibilmente parti uno dell’altro.

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